RICETTE IMPOSSIBILI. audio tracks

9.3.20-13.5.20
Spreaker. Radio indimenticabile. Disinforma e rinuncia.
In the days of covid quarantine was born Disinforma e rinuncia a streaming radio show conceived and hosted by Giacomo Laser. Every morning for 44 days it goes live from 10 a.m. to 12 p.m. Giacomo proposes that I devise and implement a column. I accept the challenge, the column will be titled the “ricette impossibili” (impossible recipes). The “ricette impossibili” were designed and written to be read by an automated synthetic voice. I would write according to the pronunciation, rhythm and timbre of the synthetic voice. From the computer I would activate the automated reading of the text and audio tracks chosen as background. I would assemble on several simultaneous layers audio sources coming out of the laptop and record them with the cell phone voice memo. The texts were written and agreed with the synthetic voice. The “ricette impossibili” are 11 texts, mute skin.

My intention is to forget what I have learned throughout life. This disposition to unlearn must intensify. I decide to identify with an individual who wakes up in an unnamed world of which he is the first human inhabitant. In this world all the objects created by human history already exist but the tools and the rest of the world nevertheless do not yet have a name. To learn about this nameless world I perform symbolic actions around the themes of care, penetration, panic and pleasure. I deal with themes such as sexuality, hunting, war and death. I decide to document everything with a video camera. Every morning I wake up in this world, leave the house and for many hours undertake attempts without logical linearity. Uprooting trees and sheds tied to them through an anchor strap knotted at waist height proceeding by tugging. Tied from the waist to a pole turning continuously until furrowing a circle in the snow. Repeated actions to the point of exhaustion. Again, squeezing tomatoes between the anchor strap and a fir tree, uncovering a tower/well/pulpit to sprinkle soap bubbles down and up the world, building phallic prostheses and breasts with the sun, building underground tunnels with marriage quilts for surprise attacks, hunting two-dimensional deer by attempting to surprise them from the shoulders of mimesis.

Assaporar parole Tarcisio Lancioni

La lunga stagione pandemica, costringendoci alla reclusione, ci ha spinto ad esplorare, scoprire o riscoprire le possibilità di impiego e riorganizzazione del tempo offerte dall’ambiente domestico. Fra queste, l’attività culinaria è stata probabilmente una delle pratiche di maggior fortuna.

Cucinare, però, come ogni altra pratica, richiede forme specifiche di competenza, fatte di saperi sugli elementi, non sempre di facile acquisizione durante la pandemia, sui modi possibili della loro trasformazione, sugli strumenti più adatti allo scopo.

Luogo di conservazione e organizzazione di gran parte di queste conoscenze è la ricetta.

Manuale procedurale per l’organizzazione sequenziale delle pratiche, elenco degli ingredienti e delle loro quantità, prontuario dei modi e tempi di cottura, la ricetta è il ricettacolo di saperi, a volte alla portata di tutti, segreto di pulcinella, a volte arcani e misteriosi, come le leggendarie ricette della nonna, tramandate di bocca in bocca, di generazione in generazione.

Ricette che devono essere mantenute immutate, rispettate scrupolosamente, e la cui alterazione è sanzionata come un sacrilegio, e rispetto alle quali il praticante assume un ruolo sacerdotale, qualificandosi solo per la capacità di rispettare le regole, di annullarsi in esse, intermediario di un sapere che attraverso lui si tramanda. Oppure ricette che si prestano a essere incessantemente reinterpretate, semplice canovaccio su cui imbastire una performance creativa, sperimentando la capacità di invenzione e improvvisazione. Dalla cucina come rito alla cucina come arte, o dall’arte come ripetizione formulare all’arte come rivoluzione e trasformazione, entrambe con i loro risvolti politici.

Modulando il rapporto fra ciò che è “commestibile”, “edibile”, relativo alla dimensione bio-fisiologica del nutrimento, e ciò che è mangiabile, relativo invece alla dimensione dei gusti e dei disgusti, culturali o individuali, la ricetta, rispettata o tradita, genera adesioni e contrasti, apprezzatori e deprezzatori, prossimità e distanze. Fra i commensali, a cui i piatti sono destinati, ma anche fra le comunità che nelle ricette stesse si riconoscono: quali sono le spezie adeguate a un piatto? Il polpo si associa all’aglio o alla cipolla? Ma il polpo stesso può essere accettato come cibo, come mangiabile, al di là del suo essere commestibile? Questioni intorno a cui le comunità schierandosi si riconoscono in un “noi” e in un “loro”, ortodossi ed eretici, buongustai e incompetenti, civilizzati e barbari …

Dietro al saper-fare pratico a cui sembra esclusivamente votata, la ricetta mette in scena una stratificazione di sensi, di significati di ordine diverso, estetico, politico, morale, rituale che vi si addensano e aggrovigliano.

È però anche altro, la ricetta: è un oggetto discorsivo. Più propriamente un genere testuale, definito da regole abbastanza precise. Una sequenza di parole e numeri – che quantificano dosi e tempi – dotata di una struttura relativamente stabile, che ci permette di riconoscerla in quanto ricetta a prima vista: una presentazione con funzione di contestualizzazione storica, geografica e culturale, facoltativa, in genere assente nei vecchi ricettari e invece tediosamente ipertrofica nei moderni ricettari in rete; poi la lista degli ingredienti con le relative quantità; quindi i modi di preparazione degli stessi – pulire, tagliare, combinare – in tutte le loro innumerevoli varietà, che incorporano l’intera storia della manipolazione umana del mondo, come ci insegnano André Leroy-Gouran e Françoise Bastide; quindi le modalità e i tempi di cottura.

La ricetta è dunque un discorso, come un articolo di giornale, un racconto o una poesia. Come questi è una sequenza di parole. Ovvietà, questa, sulla quale non siamo usi soffermarci. In una ricetta non sono le parole in quanto tali a interessarci ma il sapere che esse possono rivelare. Potremmo dire che le parole, in una ricetta, sono indispensabili ma allo stesso tempo assenti, trasparenti. La forma verbale della ricetta non è usualmente soggetta a pratiche di innovazione o reinvenzione, non è attraversata da tensioni estetiche, politiche, morali, a differenza dei cibi di cui essa parla.

Durante la crisi pandemica, mentre tutti scoprono o riscoprono le ricette, e la dimensione gastronomica ad esse connessa, Andrea d’Amore rovescia questa abitudine e scopre, invece, proprio la ricetta in quanto tale, la ricetta in quanto discorso, e ne fa oggetto di rielaborazione “poetica”, nel senso dato a questo termine da Roman Jakobson. Facendo così che siano le parole a prendere consistenza, perdendo la “naturale” trasparenza per farsi “opache”, non in quanto confuse ma in quanto capaci di portarsi in primo piano, di farsi sentire proprio in quanto parole, prima ancora di farci pregustare ciò di cui esse parlano.

Andrea d’Amore ci invita cioè a gustare le parole stesse che fanno di una ricetta una ricetta, i suoni, i ritmi, di cui essa può essere fatta, pur attraverso la pronuncia straniata, e straniante, di voci rese artificiali, quali quelle adottate per la messa in scena radiofonica delle ricette, che ricordano quelle dei navigatori stradali, negazione di ogni poeticità.

Mediato da questi suoni e queste voci, l’oggetto che attraverso loro si dovrebbe costruire, il piatto da da ir-realizzare, tende ad assumere consistenza metafisica, se il suo contenuto non fosse spesso fin troppo fisico, carnale, sensoriale, umorale.

Un masticar parole che ci invita ad assaporare la morte dell’altro che il nutrimento comporta, svelando l’atto cruento che la ricetta nasconde, o a degustare rapporti segreti fra le cose, come quello fra l’amore, l’amaro, la morte e le more di rovo, o ancora quello che potrebbe legare il sale di Cervia alla saliva di cervo, quali ingredienti di piatti immaginifici.

Fughe di associazioni che le parole alimentano con i propri giochi fonetici, raggrumando saperi, affratellando gesti, interconnettendo spazi e tempi altrimenti remoti: foreste e palestre, orientamenti lineari, reversibili o invertiti, che possono far dipendere il prima dal dopo o farli coesistere.

Verrebbe da dire, come d’Amore fa esplicitamente per una delle sue undici ricette, che sono ricette più facili a dirsi che a farsi. Per accorgersi presto, però, che ciò non è affatto vero. Oltre che ardue da fare, in quanto richiedono competenze spesso fuori dal comune, o a volte celate nei comuni modi di dire, come ognuna delle undici ricette chiaramente specifica, esse sono una sfida anche per il dire. 

La lingua – intesa sia come organo sia come forma semiotica – come nella ricetta ad essa dedicata, viene messa a bollire e ribollire, annodando il filo del discorso referenziali, mentre il dire si fa afasico, sequenza fonetica di puro ritmo. Puro piacere sonoro che si sostituisce al piacere gastronomico, sempre attraverso la bocca, luogo di confluenza del circuito verbale – bocca orecchio – e di quello alimentare – bocca ano. 

Una parentela, questa, che si nutre di saperi antropologici, e ci rinvia a ricette mitologiche intrise della ritualità necessaria per porre gli esseri coinvolti, predati e predatori, alla giusta distanza, fino a contemplare le “metafisiche cannibali” del prospettivismo amazzonico.

Anche le parole, dunque, ci dicono queste ricette, sono cose da masticare, da rigirare in bocca, e anche queste, come ben sappiamo, non sono sempre facili da digerire, specie le parole che ci mettono davanti alla nostra “malafede”, nell’accezione sartriana, di fronte a ciò che in fondo ben sappiamo pur non volendolo sapere.

Il nostro rapporto con il cibo, non solo con quello in gran parte immaginifico che emerge dalle undici ricette, richiede spesso le discutibili competenze che le undici ricette additano: una discreta flessibilità morale, la necessità di conciliare il piacere e la colpa, quella di ingoiare cose ardue da digerire, o di cimentarsi con il rischio di “prender granchi”, magari grandi quando il cacciatore stesso.

Le ricette im-possibili di Andrea d’Amore, dunque, non nascondono le tensioni, e le tenzoni, estetiche, politiche e morali, che percorrono le pratiche e le convenzioni gastronomiche. 

Al contrario, l’esercizio di rigenerazione poetica amplifica, come in genere succede con la poesia, la densità significante della “ricetta”, mettendoci a confronto, a volte brutalmente, con ciò che facciamo quando ci nutriamo. 

Le ricette, queste ricette, ci ricordano infatti che le materie prime, vegetali e animali, che la cucina impiega non esistono già pronte, anestetizzate da ogni gesto cruento tacitamente delegato, ci rinviano invece a una sorta di universo pseudo-primitivo, anche questo riconducibile agli immaginari legati alla pandemia. Un mondo naturale e selvaggio in cui si aggirano animali di varia specie. Un mondo in cui gli ingredienti sono innanzitutto prede da cacciare, aggirandosi per foreste o risalendo fiumi, in completa solitudine, salvo il rischio di cadute postmoderne fra le grinfie di follower, di cui non possiamo che divenire preda, oggetti di click e di like, il cui rumore di fondo persiste e ritma anche questo universo remoto, in cui forse magia e tecnica si sforzano di convivere: “si può allenare a lungo la tecnica, ma questa non è la magia ed essa è vana se nel momento dell’azione, scindiamo le sfere, intellettuale, sentimentale, creativa sessuale e materiale che abitano il nostro corpo” (Andrea d’Amore).

Tutto è possibile? In fondo forse è vero che impossibile non è possibile, non solo tautologicamente ma perché è l’impossibile a non essere possibile.